Nella stagione in cui ho visitato il Daghestan la segale era già stata tagliata. Non più margherite, campanule e fiordalisi sotto il timido sole di ottobre, ma campi ordinati in cui i cavalli mangiano l’ultima erba, consapevoli che presto comincerà per loro l’epoca del fieno.
Qualcosa è cambiato da quando Lev Tolstoy dipingeva un Chazdi-Murat fiero e inestirpabile in mezzo ai mille esili colori di queste colline. Oggi chi vive qui conserva orgoglioso il ricordo delle gesta dei propri avi, del valore dell’Imam Shamil, di chi gli fu leale e di chi si sentì tradito. La memoria si è fatta Storia e poi di nuovo memoria, mescolando al retaggio della dura gente di montagna la sensibile delicatezza di chi ha l’onore del proprio passato da difendere, di fronte a Dio e di fronte alla comunità.
Non più fiori oppure cardi spinosi, ma uomini rigidi eppure capaci di commuoversi di fronte al sorriso di un viaggiatore inerme che fa di uno zaino la sua casa e si accontenta del pallido sole autunnale per proseguire il suo cammino.
Non devo essere il primo straniero da queste parti: le torri di guardia degli antichi villaggi testimoniano il delicato equilibrio costruito nei secoli tra residenti e viandanti.
Di costoro, tuttavia, non si ricorda più nessuno. Ho avuto l’onore di essere trattato come il primo visitatore europeo che attraversasse queste valli.
Non avrei saputo arrivare fin qui senza i consigli di un nuovo, caro amico che ho conosciuto sulle montagne. Neppure avrei avuto il coraggio di intraprendere questi pochi giorni di cammino senza i mesi di viaggio che hanno preceduto quest’esperienza. Lasciate dunque che vi presenti un breve resoconto dei miei giorni in Daghestan, con gli occhi del turista italiano quale sono, quasi come se fosse un diario utile a conservare memoria di quanto vissuto.

Di professione io mi sposto come capita. Non disdegno i passaggi, anzi, quando ne trovo li preferisco perché così ho modo di chiacchierare con qualche ben intenzionato che mi racconterà sicuramente qualcosa di interessante. Quando incontro qualche montagna, cammino. E quando le montagne si fanno molte il cammino si protrae per diversi giorni. Per questo è bene avere uno zaino leggero, in cui poter trovare tutto ciò che serve per essere autosufficienti. Le montagne dell’Armenia e della Georgia hanno costituito un ottimo allenamento per il Daghestan, in termini sia fisici che antropologici. In Russia si incontreranno anime molto diverse, ma andiamo con ordine:
Salgo in montagna da Grozny, capitale della Cecenia, dove trovo una maršrutka che mi porta fino a Vedeno. Da qui non sarà necessario chiedere passaggi: chi ti vede camminare lungo la strada accosta e ti chiede dove tu stia andando. In questo modo raggiungo il lago Kezenoyam, dunque il villaggio di Khoi.

Nessuno dei miei interlocutori si è mai visto salire in macchina qualcuno che non capisse almeno una delle lingue da lui parlate, pochi si trovano a loro agio di fronte al traduttore del mio cellulare. La sintonia si genera con i gesti e con i sorrisi, una canzone di Adriano Celentano oppure il nome di qualche squadra di calcio.
Almeno finché non arrivo a Botlikh, dove la sorte decide di regalarmi il miglior incontro che potessi desiderare. Mentre mangio in un cafe si avvicina qualcuno e mi dice: “sei uno straniero che cammina? Vuoi restare da me stanotte?” È Vladimir, un uomo con il potere di rivoluzionare la mia esperienza in Daghestan.
Credo che a Dio piaccia chi cammina.
Una passeggiata pomeridiana aiuta a conoscersi, Vladimir comprende molto bene i miei limiti di tempo e il mio desiderio di conoscere la montagna sincera, dove la natura sembra ancora sovrastare le capacità dell’uomo.
Il caso vuole che lui lavori con un gruppo di persone che si occupano di creare una rete di sentieri attraverso l’intero Caucaso, dal mar Caspio al mar Nero: in pochi minuti mi fornisce informazioni che non sarei riuscito a racimolare in settimane di studio. E mi convince pienamente ad impiegare camminando il tempo che ho da spendere in Daghestan.
Il suo consiglio è di intraprendere un cammino da Izano verso oriente, mescolando autostop e tratte a piedi per poter ottenere il massimo dai 4 giorni che ho a disposizione. Nulla va mai esattamente secondo i piani: il cammino inizierà da Karata perché non ho incontrato nessun’automobile che proseguisse oltre. Si procede in salita, in un’ampia valle a ridosso di una scarpata spettacolare. Sopra di questa, si erge un altipiano che ospita alcuni dei mille villaggi del Daghestan. La gente qui è fiera che nella regione si parlino svariate decine di lingue diverse e il turista stenta a capire come sia possibile, almeno finché non gode di un’ampia vista da posizione sopraelevata.
La densità delle zone abitate è infatti sorprendente per chiunque sia abituato a frequentare l’alta montagna. Non importa quanto aspro sembri il terreno, dietro a quella cresta rocciosa ci sarà sempre un villaggio. E poi un altro, e un altro ancora!

Arrivo ad Izano per l’ora di pranzo, proprio mente Malamagomed – abitante della prima casa che incontro – va a controllare che le sue vacche stiano bene. “Che fai, vai a piedi? Vieni a prendere un the!”.
Quel the diventa presto un pranzo, e durante quel pranzo lui e il cugino mi danno un prezioso consiglio: “è una bella giornata, perché non vai sull’altipiano? La vista sarà meravigliosa e a due ore e mezzo di cammino c’è un villaggio in cui sicuramente qualcuno ti ospiterà per la notte”. Proprio da Izano parte un sentierino che consente di risalire l’imponente scarpata senza il bisogno di scalarne alcun tratto: sinistra, destra, sinistra, Dagzimurad disegna il tragitto per terra con un bastone per aiutarmi a capire.
Salgo, dunque, tra pareti di roccia che diventano sempre più basse e sempre più strette, convinto di arrivare presto in cima.

Proprio dove la gola si fa particolarmente stretta c’è un cancello a chiusura del sentiero. Una vera e propria barriera culturale: in Italia questa struttura sarebbe intesa per impedire il passaggio degli uomini. Scoprirò in seguito che in Daghestan non esiste questo concetto, ci si preoccupa invece che gli animali non raggiungano zone di pertinenza di altri pastori.
Mi comporto da pecora e non attraverso il cancello del pastore. Sono tuttavia molto soddisfatto della gita nel canyon.
Quando il sole è già quasi dietro le montagne riesco a raggiungere una dolce radura dove montare la tenda: un posto perfetto per ammirare la salita che mi aspetta il giorno seguente.
Tenda, coperta termica, sacco a pelo, tutto pronto per la notte: vado a cercare legna per accendere il fuoco. Torno con qualche ramo trovato nei pressi del ruscello e di fronte alla tenda mi aspetta Bashir. Lui mi ha visto da lontano e – incuriosito – ha deciso di avvicinarsi a vedere cosa stesse succedendo. “Questa notte sarai ospite nella mia tenda, cucinerò per te il kinkhali avaro e tu mi racconterai che cosa ci fai qui. Vieni con me! Ci divertiremo”. E così è stato, smonto la tenda in fretta e furia e lo seguo nel suo accampamento.

Bashir è un pastore di capre e pecore, vive nella sua tenda finché il freddo non lo costringe ad andarsene: ovvero tra pochi giorni, secondo le sue previsioni. Di cultura e retaggio Avaro, Bashir non si preoccupa di ottenere latte dai suoi animali e dunque non seleziona il gregge secondo il sesso dei nuovi nati. A lui importa la carne, e a quanto pare la sa maneggiare molto bene.
Estrae un coltellaccio e una schiena di pecora già scorticata da qualche chilo: separeremo pezzi di carne della larghezza di una vertebra e li metteremo a bollire in un grande pentolone. Fumiamo un narghilè nell’attesa che questi cuociano. Prepara delle palline di farina, sale e acqua mentre io osservo i suoi animali disporsi ordinatamente nella zona più riparata della valle, senza che nessuno impartisca loro alcun ordine. L’erba nella grossa tenda di Bashir è ancora verde, anche se questa è montata da diversi mesi. Al centro c’è un lettino, e appena di fronte la terra è fatta piana con alcune pietre piatte e coperta con un tappeto da preghiera, rivolto verso la Ka’ba (La Mecca).
“Spero tu non abbia paura dei ragni” mi dice mentre sottrae al suo letto l’esile stuoia per disporla sul terreno e farmi accomodare per la notte. Ci addormentiamo bevendo l’acqua in cui sono cotte le vertebre e le palline di farina. Non avevo ancora mai provato una tisana di proteine e carboidrati, ma dopo quest’esperienza la ordinerei in un ristorante.
Alla notte di pioggia segue un’alba dorata, e io mi incammino molto presto, con un sorriso a 32 denti di cui non riesco a disfarmi. Salita e sudore, sudore e sigarette. Brutto vizio quest’ultimo, certo, ma conta anche l’aspetto antropologico: offrire una sigaretta italiana in Daghestan è un ottimo modo per farsi un amico.
Le acque dei ruscelli cambiano spesso gusto su queste montagne, a metà ottobre non c’è neve all’orizzonte ed è evidente che i flussi d’acqua siano al minimo della loro portata. I torrenti riposano in letti capienti che fanno presagire un flusso decisamente più abbondante in primavera.

Si prosegue verso Assab: una volta passato il colle, il sentiero si fa presto stradina e gli alberi tornano padroni del panorama. Ad Assab trovo qualche umano e molta umanità, la concentrazione di teina nel mio corpo raggiunge picchi allarmanti. Esco del villaggio e, senza fare alcun cenno, si ferma una macchina. Guida Mohammed, che mi offre un passaggio verso Khalid. Tutto secondo i piani, scendiamo veloci come schegge ascoltando la sua musica preferita: techno di produzione spagnola (mi è stato grato per aver riconosciuto la lingua, perché da un po’ si chiedeva da dove provenisse quella musica).
Mi faccio lasciare in un cafe per mangiare una zuppa calda, e questa si rivelerà una mossa estremamente ingenua. A Khalid, infatti, c’è una stazione di polizia composta da gente che non è evidentemente abituata a vedere stranieri che camminano con un grosso zaino.
All’ora di pranzo alcuni di questi vanno a mangiare al cafe che ho scelto, e si riservano un tavolo coperto da due grosse tende. Mi ascoltano mentre parlo con la cuoca e appena mi sentono dire “sono italiano”, qualcuno esce dall’antro dei poliziotti e viene a chiedermi i documenti. Mi lasceranno mangiare in tranquillità, ma dopo seguono tre ore di scrupoloso controllo in centrale: abbastanza per rovinare i miei piani di camminata del pomeriggio.
La città di Goor andrà dunque raggiunta in autostop, pena dover accampare nel canyon anziché sull’altipiano. Anche stavolta, non ho neanche il tempo di lamentarmi tra me e me su quanto accaduto che una macchina si ferma senza che io faccia alcun cenno. Una graziosa famiglia mi accompagnerà a Goor in tempo per vedere l’antica città e la meravigliosa moschea rurale prima che tramonti il sole.

Alcuni ragazzi mi vedono montare la tenda mentre tira forte vento, e mi suggeriscono di scendere in città poiché li c’è una moschea in cui potrò passare la notte. Ormai è buio e tutti gli abitanti del villaggio sono al caldo delle loro case.
Entro in moschea, dove trovo un ragazzo che gioca al telefono. Riconoscerò la sua voce cantare dagli altoparlanti del minareto la sera, e di nuovo la mattina. Questo mi comunica che sono stato mal informato e che il mufti non mi permetterà di dormire lì dentro. Tuttavia, siccome è tardi, mi consentiranno di montare la tenda lì davanti.

Segue una notte gelida.
Per le 7 del mattino ho già smontato tutto e sono in marcia: mi aspetta la giornata di cammino più lunga di tutte: da Goor a Teletl, 25 km di sentiero e 1500 metri di dislivello in salita.
Dalla foresta di conifere si sale verso le grandi praterie tipiche dell’alta montagna daghestana, tempestate di ruderi dei pastori che usavano frequentare queste valli in tempi passati.
Ci si sente osservati. Le grosse aquile che girano sulla mia testa sarebbero di certo in grado di far di me una preda facile, se solo fossero capaci a coalizzarsi. Il sentiero si fa sempre più stretto, fino a coincidere con un torrente in cui sarà impossibile non bagnarsi i piedi. Ma da lì resta poca salita, e comincia la parte più avvincente di questa tappa.
Si raggiunge presto il villaggio di Ziurib, arroccato in posizione conveniente per osservare i movimenti in entrambe le valli ai suoi lati. Sentieri stretti e nascosti tra i balconi delle case consentono di arrivare fino in cima, se sei disposto a passare tra ortiche e piante spinose. Questo villaggio sta conoscendo il suo primo cemento proprio in questi giorni. Mai visto uno straniero prima, almeno così mi è stato detto.

Dall’alto si vede Teletl, ma l’orografia del terreno impone un tragitto arzigogolato per assecondare le valli create dai numerosi rivoli d’acqua che caratterizzano queste montagne. I ruscelli consentono la presenza di numerose case isolate, il cui basamento è composto da magnifici archi in pietra usati per riparare la paglia e lo sterco dalle intemperie dell’inverno.
Alcune donne lavorano nei campi ma qui – a differenza degli altri villaggi – queste si imbarazzano quando le saluto e spesso si voltano dall’altra parte. Sono finito, a mia insaputa, nell’abitato religiosamente più rigido della zona. Le numerose case in rovina suggeriscono che il villaggio perda abitanti, tuttavia è impossibile non rimanere affascinati dall’accurata disposizione delle costruzioni a ridosso della scarpata che rende Teletl la più interessante accozzaglia di case che io abbia incontrato finora.
Proseguo fino ad un piccolo negozietto, dove trovo meno di quel che speravo. Intanto cerco di fare il simpatico con i pochi abitanti (maschi) che rispondono ai miei saluti, ma qui non funziona. Un signore mi consiglia di tornare nella natura e cercare un posto per mettere la tenda prima che faccia troppo buio. Non mi scoraggio, cerco un altro negozietto per finire le mie compere. Apparentemente, qui è impossibile trovare del formaggio. Eppure tutte le mucche incontrate sul percorso suggeriscono altrimenti.
La stretta via principale è pianeggiante e attraversa il villaggio nel senso della lunghezza. Alcune stradine a questa parallele consentono all’abitato di svilupparsi in altezza, e queste sono collegate da sentieri più o meno nascosti, larghi poco più di un asino. O forse sono gli asini più larghi dei sentieri a restare isolati e non poter più transitare per la città. In effetti, se ne incontrano molti e tutti questi mangiano avidamente la paglia per loro riposta negli androni delle case.

C’è una moschea all’inizio e una alla fine del villaggio, situate sulla strada principale. Dopo una breve visita mi avvicino ad una di queste, nella speranza che vada almeno a finire come la notte precedente. Apro la porta.
“As-salamu ‘alaykum. Sto cercando un posto pianeggiante dove mettere la mia tenda. Non sembra che vicino al villaggio ce ne siano molti. Sapete consigliarmene uno?”
“Ragazzo, perché non vai nella natura a fare queste cose?”
“Avevo bisogno di comprare cibo, e poi è arrivato il buio”
“Mettiti dietro alla moschea, e domani mattina presto te ne andrai”.
Detto fatto. Scelgo il posto più nascosto e monto la mia tenda.
Appena finito di montare il tutto si avvicina un signore e mi dice: “vieni con me, ti porto a casa mia”.
È un insegnante di scuola. Insegna storia e geografia ma ama discutere di politica, almeno con me.
Mi piazza nel suo studio e mi garantisce che non ci daremo fastidio a vicenda. Non sembra così contento di avermi lì, ma siccome nel villaggio non piace che la gente dorma per strada ha preferito ospitarmi.
In realtà, Aabdurahman si addolcisce appena gli racconto che anch’io sono un insegnante: “sto raggiungendo una scuola in Kirghizistan dove insegnerò inglese per tutto l’inverno. Vado dove penso abbiano bisogno di me e lo faccio in forma di volontariato”.
Un grosso sorriso si dipinge sul suo volto e intraprendiamo un’intensa discussione sul ruolo dell’insegnante nella società. Il discorso scivola presto sulla politica: Aabdurahman sente il bisogno di spiegarmi che anche i daghestani sono parte integrante della società russa, sono fieri di appartenere ad un grande Paese e vorrebbero avere relazioni amichevoli con l’Europa, ma questa sbaglia e dunque per ora ciò non è possibile.
Anziché dilungarmi nel dettaglio delle nostre conversazioni, desidero evidenziare un argomento che mi ha profondamente stupito.
Durante tutto il viaggio che ho percorso fin qui, ho sempre sentito opinioni molto negative nei confronti dei propri vicini. Ai turchi del nord, ad esempio, i curdi non stanno affatto simpatici, mi raccomandavano di fare attenzione al portafoglio una volta entrato in Georgia e ricordavano ancora con disprezzo l’invasione russa del 1916. In Georgia, similmente, ritenevano i turchi persone poco oneste e si felicitavano che la mia esperienza fosse andata bene. Gli armeni erano arrabbiati un po’ con tutti nel loro circondario, enumerando I monasteri o insediamenti armeni che ora si trovano in terre controllate da altri governi. Alla pari, nell’Iran del nord, si additano le rivendicazioni armene come pericolosamente foriere di conflitti e si tollera male il controllo dei “persiani” su un territorio abitato da loro – azeri – che però si definiscono “turchi”.
Al contrario, Aabdurahman considera azeri e georgiani “fratelli caucasici” e mi ha detto orgoglioso che nel nord dell’Iran si ricorda positivamente l’incontro avvenuto con i sovietici (è vero, questo l’ho sentito dire anche io a Urmia e a Tabriz, in Iran).
Sembra che qui il senso di appartenenza ad una comunità non sia viziato da altrettanto senso di esclusività, superiorità. Essere fieri di far parte di un Grande Paese che nutre rispetto per la minoranza cui si appartiene sembra donare a queste piccole comunità una pace che non avevo finora mai incontrato.
Dopo quest’esperienza faccio caso per la prima volta che ai fiumi, più a valle, viene dato un nome. Delimitano un confine e necessitano di un ponte – dunque di un’autorità – perché possano essere attraversati. Nulla di tutto questo ha senso invece tra i mille villaggi di alta montagna.
Scendo a valle leggero, come se un mulo di Teletl avesse mangiato qualche pregiudizio che mi pesava più di quanto potessi sapere prima, o come se alcune piume d’aquila trovate sul mio percorso fossero in simbiosi con i miei movimenti.
Partecipare al funerale di un’anziana signora di Gogotl sarà il mio modo di salutare la montagna: ormai il tempo a mia disposizione è finito e nutro il desiderio di approfondire la conoscenza di questo Grande Paese capace di lasciare spazio a qualunque piccola comunità viva al suo interno.
Comincia un nuovo viaggio, con altri mezzi, verso nord. Ma questa sarà un’altra storia.
