Tra Tigris e l'Eufrate

storia di un salmone

A volte in viaggio ti senti come un salmone: potresti non avere ricordi chiari, ma sai che il tuo fiume è quello. Fai grandi balzi, scuoti la coda, schivi i predatori, e lo fai per un istinto che non sapresti spiegare.

Intanto smetti di mangiare, diventi notevolmente più scuro e – se non fai stretching la sera – viene la gobba pure a te.

Poco prima avevo cercato di raggiungere il mio agognato Kirghizistan via Iran, passando da Turchia, Georgia e Armenia. Ma quand’ero ancora nell’Azerbaijan Occidentale (regione iraniana) sono incappato negli attacchi del 1 Ottobre 2024 e - senza il mio visto turkmeno in mano - ho deciso di tornare indietro e provare per il torrente russo. “Se gli iraniani ora non sono ragionevoli, i russi certamente lo saranno” mi son detto.

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Più per paura della crescente diffidenza dei pasdaran verso lo straniero deambulante, che per paura della rappresaglia israeliana, sono tornato in Turchia. A tappe ferrate di dito alzato mi dirigevo verso nord – di nuovo via Georgia – per raggiungere l’Ossezia e attraversare Cecenia e Daghestan… a piedi. “a ottobre in Russia piove” ricordavo dalle sciagurate esperienze naziste di cui ho letto, dimenticando la vastità del territorio in questione.

Comunque.

Da Kars, mi conveniva costeggiare il lago Çıldır per raggiungere l’omonima cittadina (sede del castello in copertina), attraversare il confine di Aktaş e dirigermi verso la riserva di Borjomi – in Georgia – da attraversare a piedi… già che c’ero.

L’anno scorso avevo già percorso il tratto di strada da Aktaş a Kars, e conservavo ricordi tragici di quell’attraversamento: la strada del lago Çıldır è costellata di posti di blocco (come molto Kurdistan turco) ed io – realizzato che non mi avrebbero fatto dormire in tenda da nessuna parte – dopo oltre 35 km a piedi non ero nemmeno riuscito a trovare un passaggio.

Perciò, nel 2024, ho preso un pulmino.

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La mia testa rimbalzava pigra sul finestrino, per confondermi sull’origine delle lacrime che mi rigavano il volto, quando un tizio mi tocca la spalla: “Da dove vieni? E dove vai?”

“Al confine”.

“Che bell’idea, vengo anch’io!”

Non scherzava. E così mi sono accollato il vecchio Ali.

Ci facciamo lasciare al bivio giusto, lui compra 4 birre per festeggiare l’evento (e comincia a farmi venire qualche dubbio), poi cominciamo a camminare molto piano verso il confine – consapevoli entrambi che presto qualcuno ci avrebbe raccattati.

Ali è bello scafato, e mi stupisce quando incomincia a fare ogni sorta di movimento al passare di un veicolo, quasi convinto che non avrebbero notato altrimenti il suo panzone. E ci resta male nel constatare che nessuno si ferma.

Il suo fare da sirena funziona, invece, per un’auto con targa georgiana guidata da tre simpatici anziani che erano andati a farsi una bella scorpacciata di pesce sul lago, per tornare in giornata verso Tbilisi (9 ore di tragitto in totale… che bella la pensione).

Tutti con passaporto diverso, i tre si godevano gli sgravi fiscali della Georgia e Gaga – l’unico autoctono – faceva da guida. Di solito, quando qualcuno mi da un passaggio al confine, io lo saluto prima della dogana per attraversare a piedi ed evitare così le lunghe code del controllo veicolo. Ma quei tre mi stavano così simpatici che quella volta non mi è neanche passato per la mente.

Ali lo strambo si sincera di poter passare il confine con la carta d’identità – poiché non aveva minimamente previsto che la sua giornata sarebbe andata così – e ricevuti solo sorrisi in cambio corre felice verso la macchina. Mentre arriva un tragico temporale.

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A volte va così quando entri nell’ex unione sovietica: le rovine di cemento armato stanno benissimo con il cielo uggioso e Dio sembra saperlo. Ma il mio problema è che prevedevo di farmi lasciare ben presto, verso Akhalkalaki, e non avevo proprio voglia di ricominciare a camminare in quelle condizioni.

Volente o nolente, un salmone lo fa lo stesso. Siamo già a pomeriggio inoltrato e preferisco infilarmi nel poncho e proseguire, ritmato dai classici bastoncini di nocciolo che mi costruisco sempre dalla Turchia in poi.

Si ferma una sequela di persone interessanti, tra cui un macellaio e un prete ortodosso, per offrirmi brevissimi passaggi e avvicinarmi sempre più a Madre Russia. Ma quando comincia a farsi tardi, si ferma Tigris.

Naturalmente non incontro un parlante inglese da settimane, e nemmeno Tigris è uno di questi. Ma è un pescatore, conosce bene i luoghi e nutre una passione sfrenata per i salmoni… Ci capiamo, e con un russo raccapricciante gli spiego: “Si fa tardi e io sono stanco. Conosci un bel posto in cui io possa mettere la tenda?”

Non sono affatto certo che abbia capito la mia lingua, ma ha di certo capito le mie intenzioni. Avrebbe tanto voluto offrirmi la sua ospitalità, ma ha capito addirittura questo: non importa la pioggia, io voglio dormire nella mia tenda perché mi piace, ho già parlato troppo di oggi, voglio totale discrezione sugli orari e non voglio dar fastidio a nessuno.

Il cielo si fa scuro come il mio spirito: per me è fondamentale poter vedere con chiarezza dove mi posiziono per la notte. Ma cominciamo a risalire un fiume, e capisco che Tigris ha in mente un posto speciale per me.

Mi scarica in un posto beh… buio. Dove un sacco di cani cominciano ad abbaiare. Mi chiede aiuto per fare manovra e, girata l’auto, scende e mi dice di seguirlo.

Passiamo tra erba alta, rovi, mille pozzanghere, finché non arriviamo sulle sponde del fiume. Lì qualcuno ha costruito una catapecchia senza mura con un tavolino e lo spazio per un fuoco, totalmente appartato e con splendida vista sul sorgere del sole.

Tigris è felicissimo di avermi fatto conoscere il suo posto del cuore, ma deve tornare dalla moglie. Mi saluta e si dilegua.

Il primo - lungo - respiro di sollievo di quella giornata avviene su quel tavolino. Non ho la forza di accendere il fuoco: mangio qualcosa di frugale, monto la tenda nel verde e mi faccio cullare dal fiume per quei 5 secondi che passano prima di addormentarmi.

Mi sveglio, ancora col buio, perché sento degli scoppiettii estremamente vicini alla mia tenda. Esco allarmato e scopro che la tenda mi tradiva: sono già chiarissimi i primi sentori dell’alba, perfettamente perpendicolari alla mia fronte.

Lo scoppiettio invece è Tigris, che con una tecnica mai vista prima sta recuperando erba secca da sotto i cespugli alti. Nemmeno il diluvio delle ore precedenti è riuscito a bagnarla, e lui mi sta preparando il caffè.

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“Mi dispiaceva andar via così di fretta, senza salutarti. Sono venuto per accompagnarti ancora un pezzo sulla tua strada verso nord”.

Io non reagisco così bene a dirla tutta, ma come restare indifferenti di fronte a tanta dolcezza?

Facciamo colazione e saliamo in macchina. Tigris non ha mica finito con le sue sorprese!

Ci dirigiamo verso Akhaltsikhe, abbastanza sulla mia strada in effetti. Saliamo sulla collina della città, dove già da una certa distanza si poteva distinguere un maestoso castello. Le sue mura e merlature apparentemente alto medievali - centro europee nascondono una moschea, un chiostro che sembra l’Alhambra, giardini all’orientale e un magnifico bastione interno assolutamente irriconducibile ad alcuno schema.

Tira fuori il telefono e chiama. Sono le 7.30, manca un’ora e mezza all’apertura, ma premuto il bottone rosso esce una guardia sorridente che lo abbraccia e mi invita ad entrare.

Apre una porticina laterale e mi porta nel suo ufficio, dove posso posare la Mucca per godere di una visita più tranquilla. E posso farmi l’ennesimo caffè.

Quella moschea, evidentemente costruita da un amante delle albe, si è illuminata non appena ho poggiato il piede destro oltre la soglia (sempre con la destra nelle moschee, mi raccomando!).

Sono partito da Kars poco meno di 24 ore prima, sufficientemente vicino alle sorgenti del fiume Eufrate da poter pensare che il mio torrente sarebbe dovuto essere tutt’altro.

Quella mattina stessa, invece, ero alle sorgenti del fiume Kura. Da qui inizia il bacino endoreico del mar Caspio, e sarà un susseguirsi di bacini endoreici (zone geografiche in cui scorrono fiumi che non raggiungono il mare) fino al mio agognato Kirghizistan.

Il salmone aveva fatto un salto più alto del solito per entrare nella Terra di Nessuno. Aveva chiarissimo quale sarebbe stato il suo percorso. Una volta di più, sapeva che non ci sarebbero state correnti abbastanza forti da fermarlo.

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